L’uomo volante

febbraio 7, 2011 § 3 commenti

I.

Quando ti senti così, come se fossi le labbra di qualcuno costretto a trangugiare un caffè troppo caldo da una tazzina bollente, che ustiona le labbra e che fa pensare molto a perché certe abitudini si radichino, e al perché certe mode siano più fortunate di altre, o forse solo più longeve.
Quando ti sei bruciato le labbra sulla tazzina e la lingua con il caffè, quando hai pagato per macchiarti la lingua e screziarti le labbra, quando sei uscito dal bar salutando come se ti avessero fatto un piacere, quando ti sei guardato in una vetrina e hai visto le grandi labbra crescere e gonfiarsi e diventare così grandi da non sembrare più labbra, ma escrescenze di carne carnivora, una carne livida, irriconoscibile, tutta tesa a ingoiarti.

Quando uno si siede sui gradini sporchi di polvere e di coriandoli tritati e di cacche di piccione sedimentate e poi levigate da centinaia di culi in attesa, culi piatti e culi sodi, culi morbidi e culi prosperosi, culi tumefatti e culi sfondati.
Quando ti siedi sui gradini della fontana e hai alle spalle l’acqua che zampilla e di fronte il sole che attraversa i muri e squarcia il colosseo come se fosse un gioco da bambini squarciarlo, e ai tuoi piedi bambini vestiti da zorro e da coniglietti più generici che rotolano sulle cacche sedimentate e levigate e si infilano i coriandoli in bocca e i genitori premurosi che strisciano accanto a loro, stando bene attenti che i piccoli travestiti non ingoino una quantità eccessiva di carta colorata mista a cacca bianca di piccione. Quando sei in queste condizioni probabilmente sai cosa vuol dire quello che sta per arrivare.

Questa sensazione che prima striscia come un’influenza, proprio come i decimi che ti avvertono che anche te ti sei buscato il virus che ha la sigla di una bomba israeliana, ecco, quando questa sensazione striscia dentro di te, e intanto si consolida, crea nidi nei posticini intimi della tua testa, spasima e preme nei timpani, di notte, quando ti svegli con l’immagine netta impressa e sviti la bottiglia dell’acqua per bagnarti la lingua e ti ritrovi a bere tutta l’acqua che c’è, e a volerne ancora, e non poterne avere, o poterne avere ma non voler fare niente per renderlo possibile, cioè riempire l’acqua, l’acqua nella bottiglia, e alzarsi alle quattro di notte evitando gli angoli della casa nuova in cui ti muovi ancora come un neonato nel girello, ecco, farlo o solo l’idea di farlo ti fa sentire a pezzi, e così chiudi gli occhi fingendo che la sete sia passata, e poi ci dormi su.

Dormi su questa sensazione perché per un po’ puoi farlo, anche se lei striscia e preme e costruisce strutture geometriche che prima erano solo forme elementari, con la consistenza di gelatina e il colore della nebbia, e ora invece crescono nei cantieri dove gli operai seguono il corso delle stagioni, mentre la polvere sale a mucchi in punti precisi, in certi angoli contrassegnati da cartelli luminosi, e un architetto guarda tutto dall’alto, e si asciuga la fronte con il dorso della mano, e poi scende a dare un’occhiata, e tu senti queste architetture salire, espandersi, e allora forse dovresti alzarti, sai che forse dovresti farlo, ma ancora non puoi, no, ti dici, dormi ancora un po’.

Ed ecco che sei di fronte alla vetrina e ti stai mangiando, o qualsiasi cosa stia accadendo non è una cosa divertente, non c’è da ridire vorresti dire alla coppia che ti sbircia mentre lecca avidamente un gelato, lei nella coppetta, lui in cono, e vorresti gridarlo anche alla vecchietta che finge di aver perso qualcosa, e si rannicchia tutta sotto il paraurti gommato di una macchina grigia, e tu la vedi con la coda dell’occhio, e lei ti vede con la coda dell’occhio, e forse dovreste smetterla di guardarvi come bestie rare, e forse dovresti offrirle un gelato, e forse lei accetterebbe. Ma non puoi, devi pensare a questa cosa crescente, e quindi te ne vai, attraversi la strada e attraversi la città, e cerchi quell’altra sensazione, quella di non sapere bene dove si è, quella di spaesamento, che provoca sempre un po’ di piacere, se sei in città e non conosci quell’angolo dove  la strada  sale e il semaforo lampeggia arancione e le saracinesche sono tutte abbassate e da un portoncino verde scende un fiocco azzurro, e più in là dei gatti parlano vicino a un cassonetto.

Quando sei arrivato a questo punto forse povresti scrivere un romanzo.
Oppure dotresti smettere di scrivere.

II.

Quando ti convinci di essere uno scrittore sei fottuto. Un po’ perché sviluppi la stessa attitudine di quelli che si convincono, a un certo punto, improvvisamente, in una mattina in cui il cielo è terso e il caffè brucia sul fornello, che sanno volare, che lo hanno sempre saputo, e che ora devono assolutamente salire sul terrazzo e farlo.
Quando ti convinci che non solo sai mettere un soggetto, un verbo e un complemento oggetto corretti nella stessa frase, ma che sei tremendamente bravo nel farlo, allora sei nello stesso stato d’animo di quei potenziali uomini volanti.
Finché non ti spiaccichi.

Solo allora emergi veramente, solo in quel momento traumatico e doloroso, solo allora insomma si capisce di che pasta sei fatto. E se sei un uomo volante un po’ toccato, un po’ incarognito da tutte le scartoffie e dai capitomboli della vita un po’ agra e un po’ oscena, allora amico mio in quel momento sviluppi l’addizione esatta, il compendio della tua esistenza:
chi se ne frega se mi faccio male?

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§ 3 risposte a L’uomo volante

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