L’uomo che taglia i capelli (prima parte)…

febbraio 14, 2011 § Lascia un commento

L’uomo che taglia i capelli   (prima parte)

Un tizio con i capelli che esplodono nel cappello ereditato dal padre, un cappello di lana blu con banda verde, scende lungo via del Pigneto in contro senso, su una bicicletta che ruggisce dai parafanghi arrugginiti e che non sembra voler capire il limite della sua ontologia. Rimpicciolisce gli occhi, il tizio, perché il vento penetra la sua sinusite che penetra i suoi condotti lacrimali, che fanno ciò che dovrebbero fare in condizioni di stress emotivo. Quindi il tizio con i capelli che esplodono nel cappellino da pescatore pedala e incalza la bicicletta sulla strada che porta da casa sua al posto in cui sta andando.

La strada è celebre, la conoscono quasi tutti. Ma ci stanno facendo i lavori, vicino al nasone, quella specie di fontanella  caratteristica di certe strade italiane, romane soprattutto. Perciò la strada è tagliata a fettine dai segnali che avvisano la presenza di lavori, anche se i lavori non ci sono, anche se potrebbero durare anni, anche se la ditta che ha vinto l’appalto si sgretolasse per consunzione, anche allora, nonostante tutto, la strada resterebbe uguale, così com’è, come tutte le strade italiane in cui vige il cantiere, come tutte le cose italiane che non verranno mai finite.

Il tizio piange e evita buche, piange e salta sui marciapiedi, accanto ai passeggini abbandonati vicino al cassonetto, e poco sopra alle scatole di scartoffie (scatole di cartone su cui è netto il segno del nastro da imballaggio; maglioni infeltriti e bucherellati sui polsi e nel punto in cui la spalla incontra l’ascella; riviste per un pubblico prevalentemente femminile, ma le cui pagine nascondono segreti di lascivia, se uno volesse approfondire con il naso o rilevando impronte; diversi tagli di compensato che potrebbero essere appartenuti a una libreria, o a un tavolo da tè, o a un progetto fallito di fai-da-te in garage) lasciate lì da qualcuno che doveva pulire casa, o andarsene via, o semplicemente sostituire tutto con roba nuova, fresca di catalogo.

Nonostante le lacrime, il tizio riesce a pensare. Pedalando pensa che è strano quanto l’immondizia si assomigli, in certi quartieri. Pensa, il tizio, che la composizione organica e plastica di cose usate e gettate sia proprio un indizio di molte cose, circa la qualità della vita delle persone che vivono lì vicino al cassonetto, e tipo la consistenza dell’idea che le cose che abbiamo sono quasi tutte uguali, alla fine, in un modo o nell’altro, e pensa, il tizio, pedalando sulla bicicletta arrugginita, che le cose stanno peggiorando, probabilmente, dal punto di vista dell’immondizia, ma è solo il pensiero di un tizio che piange in bicicletta.

Si potrebbe accennare brevemente a certi esempi usati tutti i giorni dalle nostre bocche, circa le metafore sulla bicicletta, e sul fatto che queste metafore siano comunemente riconosciute, accettate senza ma, come per esempio quella frase che dicono in molti, quella frase che dice che quella data cosa è come andare in bicicletta, che una volta imparata, quella cosa, non si dimentica, e che possono passare molti anni e molti cantieri e molte strade senza marciapiedi e con i cassonetti pieni zeppi di cose scivolate dentro nel cuore della notte mentre i cani dei vicini abbaiano e raschiano con le zampette maculate i recinti di filo spinato montati ad arte una domenica mattina, insomma, possono passare anni, ma quella cosa non l’hai dimenticata, il tuo corpo e la tua pelle ne hanno memoria, dicono.

Così il tizio che pedala e i cui pantaloni strisciano sulla catena oleata e ingrassata, pensa che gli piace il ricordo di questa sensazione di spossatezza, dell’andare in biciletta con il vento in faccia che resterà in circolo nel suo naso, che farà in modo di farsi sentire durante la notte, e che nonostante tutto gli ricorda momenti buoni, tipo l’andare in bicicletta da piccolo, da ragazzino, da ragazzo, tipo rischiare la morte in incidenti stradali piuttosto comuni, solo per non arrivare in ritardo all’appuntamento con lei, vestitino grazioso a fiori, calze rigate colorate, capelli raccolti con un elastico verde, trucco leggerissimo che solo un naso sensibile, più tardi, nell’intimità della campagna, nascosti sotto una siepe, al buio della sera che fa il suo benedetto lavoro, lui sentirà.

Di fronte al posto in cui il tizio deve andare c’è un fruttivendolo con il tendone giallo che cola a picco sulle zucchine verde cinabro, i pomodori rossi gonfi, la frutta luccicante e porosa, le arance arancioni, i limoni verdi, i mazzetti di spezie raccolti con elastici verdi, sacchi di iuta traboccanti legumi verdi e marroni, bulbi di cipolla bianca, di cipolla dorata, di cipolla rossa che riempiono l’ambiente con l’afrore del tessuto che presto qualcuno tagliuzzerà in minuscoli pezzetti e filamenti, e che presto andranno a sciogliersi nell’olio che sfrigola. Il fruttivendolo ha un grande corpo, la forma di una melanzana tonda al centro e allungata agli estremi, la testa sproporzionata, con una coltura di fili gialli appestati, che colano come spaghetti sulle orecchie, sulla tempia sinistra, e che poi terminano improvvisamente in uno spazio liscio, sterile e lucido, la nuca. Dice sempre Prego La Servo, e lo dice masticando semi di girasole che tiene sfusi in una tasca del camice bianco. Prego La Servo Cosa Desidera? Una zucchina, dico sempre (il tizio sono io), quando è stagione di zucchina, quando le zucchine hanno il colore delle zucchine cresciute all’aria aperta, e non quella cera pallida da deficit di melatonina. Altrimenti dico Un Cavolo, grazie. O Una Verza, Grazie Mille. E lui, il fruttivendolo, incalza e chiede Ancora Qualcosa? E io No. E lui Sicuro Sicuro?

Però mi piace questo fruttivendolo, perché ha la faccia di uno che fa quello che fa con piacere, che si diverte a reggere i cestini di plastica mentre le vecchiette scelgono le mele per la colazione e il prezzemolo con cui farciranno le polpette domenicali. Si vede che gli piace proprio. E allora mi convince sempre, alla fine. E prendo cose che lascerò in frigo fino all’ultimo giorno, finché le cose/ortaggi non saranno madide e viziate dall’aria fredda del frigo e dal tempo innaturale passato lì dentro. Così lo so che andrò a prendere cose in eccesso, ma so anche che le userò, alla fine.

In effetti non ho mai capito bene perché uno faccia quello che fa. Per esempio, ho appena aggiustato la bicicletta che un amico mi ha lasciato. E’ partito, l’amico, per Londra, e in un mese non ha ancora trovato lavoro. Il giorno prima di partire mi ha chiesto se poteva passare da casa per lasciarmi due libri, ha detto, due tre libri. Così casa, il giorno prima della sua partenza, ha subito un’invasione poco attendibile, una di quelle aggressioni moleste che gli amici fanno, in certi momenti di disperazione, che suonano come ricatti e a cui non si può rispondere nulla, perché puzzano un po’ di immigrazione da ventunesimo secolo, e perché dentro la nostra testa suona quell’allarme che dice chiaramente pensa, domani potrebbe capitare a te. Così casa vede due nuove chitarre, quattro cartoni dal contenuto indefinibile ma pesantissimo, una cassa da nonsoquantiwatt, una scatola di attrezzi piuttosto ingombrante che occupa ancora una porzione abbondante di soggiorno, e due libri.

Ogni giorno, uscendo dal portoncino grigio opaco, la guardavo, e pensavo che non era giusto lasciarla lì con la gomma anteriore floscia e le incrostazioni rugginose che la mordevano tutta. L’ho pensato più o meno tutti i giorni. Ma non ho fatto nulla, per giorni. Non so perché un giorno, invece, sono andato a comprare il mastice e le toppe, e l’ho aggiustata.

E per lo stesso motivo non saprei dire perché qualche giorno prima di natale, un sabato pomeriggio, sono andato a comprare le arance dal fruttivendolo a cui piace il suo lavoro, almeno così credo. Perché la convinzione, così esatta e lucida, che quell’uomo sia veramente felice quando tratto sul prezzo di una zucchina, o quando mi faccio convincere per prendere due patate in più, quella convinzione, insomma, quella che ti fa vedere quello che vuoi vedere, ecco, non so quanto sia positiva.

Il tizio con il cappellino da pescatore e i capelli alla Jimi Hendrixappena sveglioinvestagliachechiamaamoreilsuostrumento, ecco, il tizio ha appena parcheggiato la sua bicicletta, straordinaria produttrice di cigolii che spaventano i cani dei vicini, ma soprattutto instabile psichicamente, per via del manubrio che sceglie dove andare anche se il ciclista normodotato gli impone una direzione netta. Una bicicletta così, se fosse per altre mani, starebbe attaccata a un palo, a subire passiva le pisciatine dei cani e le manovre assassine dei parcheggiatori urbani.

Il tizio ha osservato a lungo le arance sul bancone e ha risposto all’occhiolino del fruttivendolo, che significa “passa dopo, che ti faccio lo sconto”. Perciò il tizio pensa di farsi un giro, ma girandosi pesta un’enorme cacata di cane cittadino, una cacata che sollecita certi pensieri razzisti nei confronti della razza dei proprietari di cani.

Così chiede al fruttivendolo della carta e si pulisce. Poi il tizio è affranto, e cade in quella malattia che i poeti romantici chiamavano nostalgia, e che lui invece chiama solo rogna. Ed è in quel momento, nell’esatto momento in cui alle sue spalle il fruttivendolo convince una signora prezzolata ad acquistare 15 kg di patate zuccherine, ecco, in quel momento il tizio vede la scritta “DA VITO”, proprio di fronte. Il tizio pensa che è strano che lui, proprio lui, non se ne sia accorto prima. Poi pensa anche che forse sarebbe ora di tagliarseli, quei cosi crespi che infittiscono la sua splendida testa. Ed entra.

Farsi tagliare i capelli non è un’attività comune, secondo me, non è un bisogno primario ed è strettamente connesso allo Stato Della Mia Vita, cioè, ho sempre pensato che tagliarmi i capelli in certi momenti portasse poi a determinate soluzioni, che non dipendevano né dal taglio né da me, ma che in qualche misteriosissimo modo fossero connesse. Da piccolo certi barbieri mi spaventavano. E da piccoli i maschietti imparano più cose da un barbiere, nell’oretta e mezza che passa tra l’attesa e il taglio, che in diciotto anni di studi, tra elementari, medie, superiori e università. Secondo me i barbieri sono filosofi. Sono quelli che ti capiscono guardandoti nei capelli. Loro conoscono i tuoi segreti. Sanno quante volte te li lavi. Vedono dove e come dormi. Scorgono capelli altrui, se ce ne sono. Sentono l’odore della tua vita, mentre i tuoi capelli scivolano attraverso il pettine. I barbieri, poi, sono molto pazienti, e le loro espressioni e la loro postura raccontano tutto delle età dell’uomo. I barbieri da giovani sono molto aggressivi, e ti girano intorno continuamente, e tagliano con foga, e non guardano molto, e non ti parlano molto. I barbieri quasi cinquantenni, invece,  sono più concentrati sui clienti che aspettano, i clienti affezionati. E ogni tanto ti sfiorano il braccio destro con il pacco, ma non lo fanno apposta. I barbieri anziani, poi, secondo me sono i migliori, perché tagliano da fermi, e non si muovono, e la tua testa gira se loro decidono di farla girare, e credo che sia come ballare il valzer con Carla Fracci, perché loro ti conducono con dolcezza e saggezza alla tua nuova faccia.

Amo i barbieri, anche se non ci vado quasi mai, una volta all’anno forse, quando penso che i miei tentativi di tagliarmi i capelli siano non solo fallimentari, ma patetici. Amo i barbieri comunque, e li amo così tanto che quando passo davanti alla vetrina di un barbiere, e guardo dentro e vedo che è solo e sta sfogliando le pagine di qualche rotocalco, allora penso che dovrei entrare e farmeli tagliare, i capelli. Perché il barbiere mi taglia i capelli e i pensieri, e le sue mani hanno quasi l’effetto di un massaggio, ma credo che non tutti la vedano così.

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