Aleksandr Danilovič Grinberg (1885-1979) – il fotografo condannato a cinque anni di lager per pornografia

agosto 27, 2011 § Lascia un commento

Questa è la storia di un fotografo. Una storia del corpo, dell’immagine del corpo. La rappresentazione del corpo.

L’immagine che diventa rappresentazione di un popolo, propaganda, motore e specchio distorto di un regime che fa di ogni linguaggio un’arma. Era Stalin. Era Mussolini. Era Hitler. Era Oggi.

Dentro la grande storia, nel mosaico di piccoli uomini che si cagano addosso se la diarrea li attacca, nel compendio che ogni essere umano impara presto ad usare, ogni piccola storia ha valore, qualsiasi storia ce l’ha. Oggi come ieri. Come l’altro ieri.

A volte queste storie emergono perché un uomo ha deciso di contrarre i suoi archetipi e di infilarli in un mito. Ciò che succede, in questi casi, può essere chiamato μυθοποίησις, che significa “creazione del mito”.

La mitopoiesi non passa soltanto attraverso la letteratura. Roussel, Tolkien, Pavese, Lovecraft, C. S. Lewis, certo. Ma l’immagine, quella che noi vediamo riprodotta in milioni di miliardi di esemplari, quella che ha superato la linea di confine tra ciò che è visibile e ciò che è rappresentabile, l’immagine è come una rivelazione mitopoietica che si dipana, si rigenera, si sfilaccia nei labirinti sconosciuti della memoria. Dalla rappresentazione che un bambino fa di se stesso, a sei anni, su un foglio di carta su un banco  di scuola con i piedi attorcigliati intorno alle gambe della sedia, che è fatta di una linea che è tagliata da altre linee che sono più corte e che producono l’effetto di una rappresentazione di un uomo fiammifero, di uno spaventapasseri appuntito; da quella rappresentazione che il bambino fa di se stesso (se il bambino disegna peggio degli altri ciò che segue non accadrà mai) si genera una nuova rappresentazione, che come in un cartone animato, se vista alla velocità x16, produce la cognizione del cambiamento, di una nuova identità estetica che modifica quelle precedenti. Questo succede in genere ai bambini. Io non sapevo disegnare.

La fotografia è seduttiva.

La fotografia è mitopoietica.

La fotografia è una storia moltiplicata per altre storie divisa per uno.

Quello che mi diverte di più della fotografia è che la diamo per scontata. Mi diverte molto. Mi diverte così tanto che mi inquieta.

C’era una storia da raccontare. La racconterò.

Il fotografo, l’autore di questo scatto, si chiama Aleksandr e viene dalla Russia. Durante la prima guerra mondiale viene fatto prigioniero dai tedeschi. Si fa un po’ di prigione, che non è una cosa buona, ma è riposante rispetto alla trincea. Durante la prigionia non sa cosa fare. Così, un giorno, per caso, scopre che in carcere con lui c’è un tizio che ha dei documenti in tedesco sull’uso della chimica in fotografia. Decide di tradurli. Lo fa. Quando torna a casa riprende i suoi appunti, e li applica. La sua fotografia cambia rapidamente.

Diventa celebre per gli scatti dei corpi nudi, atletici, tonici, marziali degli uomini e delle donne del regime stalinista. Ma Aleksandr va oltre il messaggio propagandistico, cerca le radici, gli interni dei corpi che ritrae. I nudi, i suoi nudi, diventano sempre più veri. Il corpo così com’è. Senza chiedere pose alla modella, o al modello. Lavora così sul corpo che si muove. Che si flette. Sul corpo che digerisce. Sul corpo che non interessa al regime. Che non dice che il regime è sano. Ma dice solo la sua storia, la sua impronta nella storia. Per questo viene accusato di pornografia, e per questo finisce in un lager, per 5 anni. Succede nel 1936.

Quando esce dal lager la vita è raminga. C’è poco lavoro. Tranne i ritratti. I ritratti salvano i pittori e i fotografi. Così inizia a lavorare ai ritratti su commissione. E poi muore. Nel 1979.

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