Istruzioni per una casa in cui vorrei abitare – Cronache dalla terra degli esseri che cercano casa

marzo 4, 2012 § 3 commenti

Da piccolo immaginavo il destino. Lo guardavo dalla grande stanza seicentesca, con la grande finestra sul giardino, con il grande freddo che ghiacciava le strade e azzoppava gli ottuagenari, nella piccola città di nome Heidelberg, con un grande castello di pietra rossa scalfita dai cannoni francesi, nella regione della Valle del Reno, nella Germania ancora divisa da un muro che faceva saltare la gente sul vuoto minato. Ero piccolo, ero stupido. Non sarei cambiato. Immaginavo il destino. Guardavo il cavaliere blu. Giuditta e Oloferne. L’uomo che guarda la valle coperta di nebbia. Il destino mi sorrideva. Avevo tutta la vita davanti e non conoscevo Virzì.

Poi sono cresciuto: i piccoli peli crescenti si sono distribuiti in modo omogeneo sul viso, eterogeneo sulle gambe, astratto sui genitali. Ho conosciuto i tramonti del Sud, le albe devastanti dell’Ilva, il fumo delle ciminiere che sparavano chilometri di fumo nelle narici spente nelle case accese nelle notti buie. Ho mangiato i fritti misti, mi sono innamorato, ho letto Lowry, Dante come se non lo avessi mai letto, il Leopardi dell’Ultimo canto di Saffo, Kavafis, Tolstoj, Dickens, Neruda, un tizio che scriveva poesie dialettali dedicate agli orologi e Rimbaud.

Al liceo avevo problemi con i docenti. Ero restio a parlare. La lingua mi si mozzava in bocca, diventava granito, arrossivo, e la paura di essere arrossito riverberava, sfumava nelle gocce di sudore gelido e ascellare, eredità di un padre che raccontava spesso la storia di lui a Trieste durante il terremoto, con le gocce di sudore ascellare a meno dieci. Ma crescevo e resistevo. Avevo i miei mali, i demoni, diceva Alberto. Combatti i demoni. Parlavamo nascosti in una Panda 750, io e Alberto, vicino a casa sua, dove la madre lo aspettava sulla sedia a rotelle, pronta per essere spostata su un letto, pronta per fingere di dormire. Fumavamo piccole quantità di hashish, parlavamo di ciò che sarebbe stato, lui archeologo, egittologo, io stronzo e scrittore ingenuo.

Poi Bologna e quei tetti rossi e freddi, Claudia che ride, Claudia che sorride, Claudia che cucina, Claudia che ha la pelle bianca e mi ricorda un’amicizia che non smette di essere, anche se gli anni brucano e succhiano, Claudia è Claudia, e io vado a vivere a Roma. Mi innamoro ancora, perso, tradisco, cado, fumo, bevo, leggo, fotto, scrivo, copio, ricopio, cancello, mordo, sodomizzo. Il destino mi sorrideva.

Case che si ricompongono nella memoria, succede così a tutti. Momenti nelle case perdute, nelle stanze separate, in quell’essere giovani e puzzoni, con i piedi sporchi di cenere, le labbra vermiglie per il vino, la fame gorgogliante e paziente.

Tutto cambia, poi. Tutto cresce, ma resta. Resta la traccia di quei capelli, di quei cuscini, dell’umido che ci mangiava i pollici.

E arrivo a quasi trent’anni. E cerco casa. La cerco nelle strade che conosco da dieci anni. Su e giù per la Casilina che è un lungo fiume conradiano, un burlesque per pochi intimi. Conosco le buche, i saliescendi, le puttane agli angoli, i pezzi di intonaco scaduto, i negozi che cambiano, le loro messe.

E arriva un nuovo tempo. Andarsene, cercando di restare. Così la prima casa che vedo è nel vecchio quartiere che ho amato. Tor Pignattara. T’ho amato, t’ho amata, t’ho sognato, ti ricordo spesso. E chiamo un numero letto sul giornale che si chiama Porta Portese ed è il giornale degli annunci, qui, nella città delle solitudini estese. E vado a vedere il palazzo con quarantacinque minuti di anticipo.

Così entro, salgo gli scalini corti, guardo gli oblò ovattati, le porte blindate e i campanelli ingrigiti. Ed entro. Entro e parlo. Parlo in inglese, perché David è inglese. Di Londra. E poi Arriva Simone. Che è siciliano, di Palermo. E parliamo in siciliano, in inglese, in romano. E guardo ogni angolo perché ogni angolo è scoperto. E la casa è un gran casino. Come se fosse la tana di un gruppo di tossici resistenti. Come se fosse il nascondiglio di un pittore senza mani. Come una casa senza futuro, con le pareti trapassate dai pastelli, coperte dall’osceno dei disegni astratti, sfiorata dalle tende imbevute di polvere e fumo. Una casa con un storia precisa. E io che penso.

Che penso al destino. A quelle passeggiate che portavano sempre sotto quel palazzo. E penso che non ci sono istruzioni per cercare una casa. Penso che questa casa è così. E ho due giorni per decidere. E ora bevo un bicchiere e ci penso.

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