La panchina

novembre 6, 2010 § Lascia un commento

«Così è la vita, quando credi di non avere niente, ne incontri un altro che ha ancora meno.»
BERNARD MALAMUD, “LA VENERE DI URBINO”

 

 

 

 

Siedi su una panchina verde, lo smalto grattato via, le assi divelte a tratti, gonfie per l’acqua che ha fatto quest’inverno.
Ti gratti il ginocchio destro, poi sfogli il giornale che hai trovato in un cartone.
Le pagine a caratteri grandi non ti piacciono, pensi che erano meglio quelli fitti fitti. Dentro c’era più roba. Ti gratti ancora il ginocchio.
La signora si è seduta sulla panchina di fronte.
Apre un cartoccio e prende una manciata di molliche. Un piccione s’avvicina ai piedi della panchina. Gli dici di andare dalla signora.
Ne arrivano altri. Poi si mettono a beccare.
Erano meglio quelli fitti fitti, pensi.
Se c’era il pericolo di un disastro nucleare le voci concordavano sul pericolo del disastro nucleare.
Ognuno diceva la sua, nei caratteri fitti fitti. I piccioni beccano o nascondono i pezzetti di mollica con le zampe. Poi arrivano altri piccioni.
La signora estrae con le mani a coppa, lascia filtrare attraverso le dita, poi lancia la manciata di molliche. I piccioni saltellano, fanno per sbattere le ali, beccano.
Un bambino dorme in una carrozzina portata da una signora che indossa un turbante rosso, un vestito verde e lungo fino alle caviglie, e urla al telefono cellulare.
Un ciclista attraversa il tratto di strada tra le due panchine, i piccioni volano via, ma tornano subito in ritirata.
Siedi sulla panchina e ti guardi le mani. Prima o poi dovrai tornare a casa.
Devi prendere l’autobus, scendere alla sesta fermata, attraversare la strada, prendere la prima a sinistra, proseguire fino alla fine dell’isolato, fermarti davanti alla cellula fotoelettrica, entrare.
Sembra che la signora e i piccioni si conoscano. Non è possibile, pensi, che dopo anni di incontri non la riconoscano.
Il bambino nella carrozzina si è svegliato, ma non piange: la donna continua ad urlare.
Ti gratti il ginocchio destro, ripieghi il giornale, ti alzi.
Devi muoverti prima che chiuda il supermercato.
Erano meglio quelli fitti fitti, pensi. Ma chi lo sa.
Ora devi andare.
Da quant’è che ti sei ridotto così, a grattarti il ginocchio, guardare i piccioni e maledirli, da quant’è?

Hai solo 56 anni, ci vedi bene, respiri, nessuna rottura di coglioni alla prostata, hai una pancia moderata, la pelle ancora viva, le mani rispondono, gli occhi pure.
Passi le giornate nei parchi: non leggi, non fumi, a malapena guardi la gente che corre o passeggia.
Prima, fino a due anni fa, ti sembravano ridicoli quelli che se ne stanno per ore seduti, con la faccia assorbita dal vuoto.
Sei un pre-pensionato. Non doveva andare così, ma è successo. E anche se all’inizio ti sembrava difficile anche solo svegliarti, ci hai fatto il callo.
Nel supermercato dove vai da almeno dieci anni nessuno ti ha mai rivolto la parola. C’è la guardia giurata con cui ogni tanto hai provato a fare conversazione, ma quello niente, rispondeva, torceva il collo come fanno gli ex atleti, e con una scusa ricominciava a girare tra i corridoi.
Le cassiere cambiano troppo spesso. Una volta che sei in fila e sei riuscito a ricordare il nome e a trovare un modo per farla parlare, Jennifer è stata sostituita da Debora.
Poi c’è quel diavolo di diffidenza, e te sei un uomo solo, che gira come uno che non ha nulla da fare, e forse la prima cosa che passa in mente a quelle donne che avvicini è proprio questa: o è depresso o è maniaco.
Per questo hai votato Lega alle ultime elezioni. Perché non te ne frega niente di chi governa, ma qualcosa la devono fare per gli stupri e soprattutto per l’aria che tira.
Accarezzi una bambina e la madre ti guarda come avrebbe fatto tua madre con Charles Manson. Fino a due anni fa non avevi un’idea tutta tua sulla questione della violenza. Ma da quando vaghi per la città ti sei dovuto dare un codice, dei principi. E la priorità, al momento, è di eliminare i maschi violenti. Fantastichi spesso di salvare la cassiera da uno stupro, e di assumere così un altro aspetto agli occhi delle donne. Ecco, uno di cui ci si può fidare. Sì, va bene, va in giro sempre da solo, ma avrà le sue ragioni. Magari è uno di poche parole. Forse soffre, che ne sai, gli è morta la moglie. Ecco.

Ma la storia è un po’ meno tragica:
la vita se ne va da sola, tu la spendi poco, mangi carne due volte a settimana, non bevi nient’altro che succo d’ananas, hai avuto tre relazioni che si sono risolte in tiepidissimi epiloghi, non hai figli, tuo padre e tua madre sono morti da dieci anni, vivi in un monolocale di 45 mq, paghi 400 euro d’affitto ad una maestra in pensione, Margherita, con cui ogni tanto chiacchieri dei lavori da fare alla fogna, della cantina da sgomberare, di sua figlia che è andata in Canada per fare la ricercatrice, ma per ora fa solo servizio al tavolo; leggi molto, soprattutto biografie di sportivi, la tua preferita è quella su i pugili italiani in America negli anni ’30; condividi il pianerottolo con Giovanni, 48 anni, geriatra al Policlinico, sposato con Carla, che ha dieci anni in meno e il corpo da ninfa; hanno due figlie, Elisabetta, 5 anni, Susanna, 2 anni.
Giovanni è sempre molto elegante, quando lo incontri nell’atrio del condominio e prendete l’ascensore ti viene da starnutire per il profumo con cui si cosparge e che a fine giornata pizzica l’olfatto. Sai che è un uomo affascinante, calza scarpe comode e probabilmente traspiranti, non c’è dubbio che ci sappia fare con deboli, anziani, malati. Racconta storielle divertenti, fanno ridere e mettono il buon umore, ma tu ti sforzi, ti controlli, fingi che non siano niente di che.
L’amante che lo viene a trovare nei fine-settimana non suona mai il citofono. Lo sai perché si sente tutto dal corridoio. Lei ha già le chiavi in mano quando si avvicina alla porta blindata, apre e tu non la senti più per due giorni. Questa cosa avviene quasi sempre il venerdì sera, quando Carla, Elisabetta e Susanna vanno a trovare i nonni che vivono in Abruzzo.

Il tuo lavoro consisteva in nove ore di contabilità su una sedia girevole con il cuscino ammortizzato. Nonostante le lunghe sedute in ufficio, non ti sono mai uscite le emorroidi e tu ringrazi la vita sana, parsimoniosa, che hai saputo conta gocciare, proprio come hai fatto ogni mattina con il propoli sotto la lingua. Era un lavoro meno noioso di quanto la gente dica. Per te i numeri sono frasi, e quelle cifre che arrotondavi, dividevi, percentualizzavi non erano altro che piccole storie: giorno dopo giorno scrivevi la biografia di una piccola azienda nel campo degli elevatori; tutti i movimenti erano accompagnati da date, firme, quantità, importi; a te sembrava un lavoro adatto, onesto.
Uscito dall’ufficio camminavi per una mezzoretta tra i negozi che si preparavano alla chiusura. A quell’ora, le persone che vedevi erano quasi sempre impegnate, correvano su e giù per i viali, entravano nei tabacchi per prendere sigarette e gratta e vinci, spremevano i polpastrelli sulle macchinette nei bar semi-vuoti, uscivano dai supermercati con i manici delle buste di plastica tesi, cercavano parcheggio vicino ai Bingo e alle sale scommesse per una puntata veloce. La giornata finiva così per te, con l’amaro in bocca per tutta quella gente che si faceva assorbire dal vuoto.
Giochi e vincite, azzardi e scommesse, ti facevano rabbrividire, ed è ancora così.
L’unico sfizio che ti permetteva di comprendere in parte quella follia collettiva era la lotteria nazionale di capodanno.
Acquistavi 5 biglietti, tornavi a casa, stappavi lo spumante, mangiavi un tramezzino. Poi la televisione accesa ad alto volume per arginare tutti i rumori tremendi che venivano da fuori. E così aspettavi l’uscita della tua combinazione.
Hai capito che la pratica di fantasticare su una vita diversa non è nella tua natura. Sai anche che non ti piace perdere il controllo, che preferisci avere tutti i dati a portata di mano. Ma quell’unico giorno in cui facevi uno strappo alla regola, ti sembrava l’inizio di un anno lunghissimo. Poi certo le cose cambiavano, quasi cancellate da una corrente più forte. Una volta, addirittura, hai dimenticato di controllare i numeri usciti.

L’amante di Giovanni si chiama Francesca, è giovane e porta la fede nuziale. Per te la faccenda dev’essere più o meno così:
il marito è suo coetaneo, lavora fuori città durante i fine-settimana, non hanno figli perché è troppo presto, lei lo ama veramente, ma le piace anche scopare, e Giovanni è uno che ci si fare, ne sei sicuro; a Francesca piacciono anche le donne e prima di sposarsi ha convissuto per quattro anni con una cantautrice più grande di lei; va bene che non ti piacciono quelli che giocano tutto l’anno, ma non sei un moralista, e questa storia tra Giovanni e Francesca la capisci. Non ti dispiace per la moglie, lei ormai ha le figlie, e il marito è diventato come il suo miglior amico: uno a cui far vedere le tette ogni tanto, toccargli il cazzo una volta a settimana, e sentire quella cosa che avvolge e non stritola più, ma dà solo conforto.
Il tuo punto di vista sulla figura di Giovanni è cambiato talmente tanto dalla prima volta che l’hai visto, vi siete stretti la mano e avete preso l’ascensore, che quasi ti senti come l’altro lato di Carla, quando gli si stringe con le cosce intorno alla vita e respira tutta l’aria intorno al collo. Non ti sembra giusto però, negare l’evidenza: che quell’uomo ti provoca repulsione, che l’adori, che se te lo chiedesse potresti leccargli i bottoni della camicia e non smettere finché un vigile del fuoco armato di accetta t’amputasse via quello strumento splendido, che prolunga i ricordi e raccoglie la memoria, e che tu usi davvero poco.

Gennaio è passato da quattro mesi, la panchina s’è asciugata, ma le macchie di pioggia e umido si sono indurite.
La signora dei piccioni non è ancora arrivata. Dall’altra parte del viale che taglia in due il parco c’è una gattara che apre barattoli di carne, versa la brodaglia in piattini di plastica e aspetta vicino a una quercia.
I gatti arrivano lentamente, stiracchiano le ossa sul prato che è cresciuto molto. Leccano con delicatezza la poltiglia marrone, girano il muso, gli occhi nella radura isolata.
Un uomo corre sul sentiero di ghiaia, ha pantaloncini rossi, maglietta bianca, scarpe da ginnastica nere.
Margherita, la proprietaria di casa, ti ha detto che sta cercando un acquirente per il monolocale. Ma non è un buon momento per vendere.
Solo che le cose potrebbero andare peggio. Il valore dell’immobile scende, e lei non sa cosa fare. Ha chiesto se per te è un problema.
Giovanni, Carla, Elisabetta e Susanna si sono trasferiti in un quartiere dall’altra parte della città.
Dopo che hanno vinto alla lotteria nazionale di capodanno non hai più visto Francesca.
Speri solo che stia bene, che le cose con suo marito non si siano deteriorate e che magari un giorno, seduto sulla panchina qui al parco, ti capiti di vederla con qualcuno.
Ma chi lo sa. Accendi la tua prima sigaretta dopo anni di digiuno, fai il gesto di sbriciolare qualcosa con le dita.
Un piccione si avvicina, cerca le molliche inesistenti sull’asfalto, tra i tuoi piedi.
Aspiri.

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