Il trucco

dicembre 21, 2010 § Lascia un commento

 

Tra una scena e l’altra, usati come collegamento, in quanto sintesi tra ciò che è successo e ciò che accadrà, gli attori di
soap opera, di fiction, di serie e mini-serie, hanno l’obbligo contrattuale di esercitare una pressione sul loro volto pari a quella esercitata da una paresi al ralenti.
Non importa cosa stia accadendo nello studio, non conta il tuo curriculum pieno zeppo di nomi esotici con la desinenza in -owski, e non ti serve la stoffa comunemente usata per confezionare un abito di buona fattura.
Il tuo regista non sa nulla di fotografia e non gli interessa, oppure mente a se stesso, perché è tutto il giorno che sta fermo su una sedia pieghevole con il reggispalle in tessuto verde. Tutto il giorno. Dalle otto di mattina fino alla pausa pranzo, che può essere comunicata tra le 12.30 e le 13.45.

Prima della fame vera, la produzione si impegna a riempire il buco infra-mattutino con una busta di carta piena di tranci di pizza bianca. A volte è stantia, durissima, che staccato un morso devi assolutamente ammorbidirlo con la saliva, per poi ingoiarlo in fretta, e badare che non ci siano briciole e molliche intorno alle tua labbra.
La truccatrice e le sue assistenti ti hanno già rispolverato il davanzale per tre volte, e sono ancora le 10.00. Dev’essere per il lavoro che fanno, sì, una deformazione non congenita ma progressiva: hanno le caviglie grosse e il trucco pesante.
Ti chiedi spesso perché quelli che lavorano con gli attrezzi dell’estetica non hanno intenzione di darne sfoggio. Dev’essere perché sono umili, mettono la loro conoscenza al servizio di chi ne ha più bisogno.
Per esempio, i parrucchieri sfoggiano tagli di capelli da carcerati, e le truccatrici hanno quel pallore caratteristico delle porno-star, truccate con polveri che assorbono il sudore, ma che non riescono a nascondere la stanchezza.
Ecco, le truccatrici sembrano sempre stanche. Come se passassero le notti a truccare volti in sogno, a passare phard e eyelyner su facce interessanti e difficili, a seguire percorsi segnati sulla pelle.
Forse cercano il trucco perfetto. Un trucco da usare per tutta la vita. Un trucco da smaltire a fine giornata e da ripetere al mattino, le stesse linee, lo stesso materiale.

In società come sul set si deve dare un’impressione non interpretabile. Cioè, devi cercare il modo per non sembrare macchia, devi assumere una postura che ti dia credibilità, che gli altri possano riconoscere come utile, ai fini della convivenza.
Se evadi da questo principio comune sei fottuto. Risulterai simpaticissimo o antipaticissimo. Ma l’essenza di ciò che gli altri vedranno avrà l’aspetto di uno che non sta alle regole.
Sbagliato.
Che non si adegua ai postulati che formano il carattere di una civiltà come la nostra.
Sbagliato evadere.
Sbagliato dire cose fuori posto.
Solo cose a posto.
Ecco perché ti piace il lavoro che fai. Ti è bastato scoprire un trucco, il trucco che usi da quando ne hai scoperto l’esistenza, il trucco perfetto.

Per esempio:
la scena scritta in carattere Arial, grandezza 14, su tre fogli bianchi con margini molto larghi, è una scena a due che diventa una scena affollata:

un uomo e la donna del suo miglior amico stanno parlando di una festa;
hanno intenzione di organizzare una sorpresa, una di quelle feste in cui il festeggiato arriva tardi davanti alla porta di casa, gli invitati si nascondono nelle zone d’ombra, ridono, qualcuno palpeggia;
l’invitato è stanco e non riesce a trovare le chiavi (una donna ride e un uomo le mette la mano sulla bocca, lei morde il palmo, lui le sorride, lei stuzzica la pelle di lui con la punta della lingua); l’invitato ha trovato le chiavi, sbuffa, e fa quel movimento con la testa, quella specie di tric trac che scaccia via la tensione delle spalle, perché la giornata è stata dura, il lavoro è stato duro, e lui forse non vuole far altro che chiudere gli occhi con la tv accesa su un canale qualsiasi, addormentarsi con lo sfarfallio della luce sulle palpebre, dire ciao a una giornata qualsiasi;
la porta si apre e qualcuno degli invitati si chiede se è il momento di uscire gridando auguri, ridendo con il bicchiere pieno di spumante e poi, spukk, farlo cadere sul pavimento mentre tutti circondano il festeggiato, e qualcuno dice, non te l’aspettavi, eh?;
la porta si chiude, la luce dell’abat-jour spezza in due il soggiorno, segnala che la borsa è stata poggiata sul tavolo, che l’uomo è andato un attimo in bagno, e gli invitati si chiedono, beh, dovrebbe essere ora, che aspettiamo, e dov’è la donna che ci ha chiamato, e perché stiamo qui, magari a lui non piace questo genere di cose, forse se ne frega di averci qui con lui il giorno del suo compleanno, e cose così;
ma nessuno si muove, tutti aspettano che tutti facciano contemporaneamente il primo passo, e tutti sentono il peso di questo silenzio trattenuto, eccitante anche, tutti più o meno tutti provano una sensazione molto simile a quando erano piccoli e giocavano a nascondino, in un giardino o tra i vicoli di un quartiere, d’estate, al buio, e tutti ricordano la gocciolina di sudore che si stacca dall’ascella e pluff, tocca la stoffa della maglietta, ma il cotone non la ferma e quella scende come un rivolo lungo il costato, ecco questa sensazione di tensione divertita, che poi in genere scoppiava in grida o nella corsa a casa base, con l’affanno e le goccioline di sudore, sempre più numerose, sulla fronte adesso, e la maglietta bagnata sulla schiena e sul petto;
gli invitati sentono il rumore dello sciacquone a cui segue il suono dell’acqua e lo strofinio delle mani (intanto la donna che aveva stuzzicato la mano dell’uomo che la zittiva con la lingua ha cambiato posizione nel buio, ha sollevato la gonna di seta bleu e abbassato le mutandine nere, portando la stessa mano di prima ad un contatto più energico con il proprio intimo), poi la porta del bagno si apre facendo iihhh e allora alcuni degli invitati non ce la fanno più, proprio come quando da piccoli si nascondevano e il posto era talmente buono che nessuno li trovava e allora il gioco non aveva più senso, gli altri bambini si fermavano, e quello o quella che cercava di trovare i bambini ancora nascosti iniziava ad annoiarsi, e allora il gioco era in una fase di stallo, ci voleva qualcuno che facesse qualcosa, ma tutti avevano paura di fare un passo falso;

(gira la pagina, prego)

La scena sembra congegnata bene, ma devi smettere di leggere perché la truccatrice ti deve dare la quarta passata, e puoi sfruttare il momento per rilassarti.
La poltrona è comoda e la pizza bianca era più fresca del solito, croccante sul bordo, come piace a te. Hai la sensazione di stare bene, di essere nella giornata giusta.
T’accorgi che non ti dispiace affatto guardare le caviglie di questa donna bassa e truccata molto male. Chissà perché non riesci mai a parlarle. Dev’essere qualche blocco legato al fatto che ti senti proprio come un bambino il giorno di carnevale, con mamma che ti impiastra la faccia con un pastello bianco.

Da parte tua, non hai mai capito come fanno i clienti di un barbiere, stravaccati sulla poltroncina reclinabile, a parlare di sport e dei fatti loro, mentre il tipo con il camice bianco gli infila le mani tra i capelli.
Tu hai sempre provato grande piacere.
E quando provi piacere non sai parlare.
Non ti viene.
Forse non è un blocco, e può darsi che per una volta tua madre non c’entri niente. Sì, probabilmente non riesci a parlare con la truccatrice perché ti piace essere truccato. Ti piace il contatto dei pennelli con la pelle, ti piace il brivido accennato, quasi un solletico leggerissimo, che sale e scende lungo la tua faccia da fiction.
Il trucco, comunque, se ci pensi bene e ti isoli dall’immagine del tuo corpo seduto su una poltrona mentre la truccatrice passa un filo di rimmel sulle tue ciglia, il trucco è, se eviti per un po’ di guardare lo specchio e vederti riflesso mentre pensi al trucco della tua vita, il trucco è.

Ricominci a leggere, appena la truccatrice ti dice, ok, per me sei a posto:

gli invitati si aspettano che il festeggiato compaia di nuovo in soggiorno, che parli tra sé e sé o si lasci andare come un padrone del vapore, slacciandosi i bottoni della camicia, sospirando come uno che ha subito la delusione di non essere festeggiato, anzi, come uno di cui nessuno s’è ricordato il compleanno, perché è così che è andata:
s’erano messi tutti d’accordo, nessuno avrebbe dovuto fargli gli auguri, e conoscendo il festeggiato, sapevano che lui non avrebbe accennato a nulla, perché persona schiva, timida, ed è per questo che il suo miglior amico e la sua ragazza avevano organizzato la festa a sorpresa;
la porta del bagno è socchiusa, la luce che proviene dall’interno è calda e avvolge rumori di cose cercate, gli invitati fanno piccoli passi silenziosi e si sgranchiscono le gambe, piegano la testa evitando però i tric trac, qualcuno vorrebbe accendersi una sigaretta ma c’è sempre chi vigila sull’effetto della sorpresa e (l’uomo ha vellicato a sufficienza le grandi labbra e la donna sembra soddisfatta, così l’uomo sente l’impulso di fare qualcos’altro, un gesto semplice, qualcosa che dia alla donna l’impressione d’essere apprezzata per ciò che fa e farà) non può farci nulla quando uno degli invitati s’avvicina al tavolo su cui il festeggiato ha appoggiato la sua borsa e fa un segno con la mano per dire venite, vediamo cosa fa, ma qualcuno, c’è sempre qualcuno che produce questo genere di pensieri, diciamo che si preoccupa per la riuscita perfetta dello scherzo o sorpresa, perché l’uomo che ora è in bagno potrebbe spaventarsi o arrabbiarsi o pensare che lo stanno spiando e forse la reazione non sarebbe quella che tutti loro si sono aspettati di vedere;
una volta che qualcuno ha segnato il territorio facendo il primo passo, sarà impossibile evitare che altri lo seguano, ed è questa la sintesi migliore per descrivere il momento in cui tutti gli invitati, ormai certi di dover dare una fine a quest’attesa nel buio, si muovono all’unisono verso la porta del bagno (soltanto l’uomo e la donna restano nell’ombra, tra l’armadio a muro e il quadro con la cornice d’ottone).

(gira la pagina, prego)

Il trucco, pensi girando la pagina, consiste nell’essere ciò che stai facendo, entrare insomma nei vestiti inamidati che ti consegnano le costumiste, sapendo esattamente che effetto avrà su di te quella stoffa.

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