Nella terra degli uomini liberi

novembre 26, 2012 § 1 Commento

Casa mia è dall’altra parte del ponte, dalla parte delle baie, accanto a vecchi palazzi di vecchie case popolari a cui hanno munto la vernice da decenni, dove i bambini prendono il fresco stesi sulle carcasse di zip e atalamaster arrugginiti. L’orizzonte è una parete liscia e azzurra. Lontano, a centinaia di chilometri dal suono cronico dei condizionatori, si vede un muro di nuvole che sembrano immobili. Nessuno lo mette in dubbio. Lo scirocco bagna la pelle. Riscalda l’acqua delle insenature. La tramontana asciuga il sudore. Porta correnti fredde a riva. Porta polveri rosse nell’acqua che trema e traspare.

Di questa terra che vibra sotto le cucine smontate e rimontate a San Vito durante le ore del vitto cronico di Ferragosto, che rosseggia intorno agli ulivi sulla strada che sale verso Martina Franca, che crosteggia le vie dei paesini che macchiano le campagne come isole bianche e rumorose, di questa terra si parla di continuo. Da giorni ne parlano nei dibattiti televisivi, ne scrivono sui quotidiani, sui settimanali, sui mensili. La fotografia del quartiere Tamburi è dappertutto. Si vedono gli appartamenti delle palazzine, la luce nelle finestre in una giornata invernale, le antenne, i panni stesi, le inferriate. E sullo sfondo i gas, i fumi, le particelle nere sputate alte sopra il quartiere.

Anni fa, steso in una camera da letto con le persiane chiuse, vidi Le mani sulla città. Il bianco e nero della pellicola era accecante. Accecante come le inquadrature che avvolgevano i quartieri nascenti, i tavoli pieni di carte su cui uomini camicia sbottonata maniche ripiegate progettavano l’espansione delle città. Cemento e fabbriche riorganizzavano la vita sociale del paese. Quello era il miracolo economico. Una definizione inoculata perfettamente nel tessuto molle dello stivale.

Pensai ai paesini morti di noia in cui erano nati i miei genitori, negli anni del boom. Pensai che le case erano fatte di tufo, che le strade erano fatte di buchi. Tutto intorno c’era il mondo sotterraneo dei templi nascosti dai secoli, delle rovine estorte, delle tombe infarcite di ori e politeismo, dei mosaici a cielo aperto nelle ville romane, e tutto questo resisteva alla febbre degli incivili, restava nonostante tutto.

Ora dicono che il ciclo è finito. Il ciclo che ha nutrito e gonfiato la città.

Ora dicono che il ciclo è chiuso.

Chiusi i cancelli, dicono loro. Da stasera. Ore 23:00.

Ho un cugino che lavora in quella parte di Inferno.

Si chiama Francesco.

Ad agosto gli ho chiesto, se dovessero chiudere, cosa faresti?

Non lo so, mi ha detto, so forse che me ne andrò. Forse dovrò prendere un treno e poi un altro e poi un altro ancora. Ma di una cosa sono sicuro. Quando succederà, io sarò pronto.

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