la mia periferia

dicembre 18, 2010 § Lascia un commento

la mia periferia

 

1606. Campo Marzio: Michelangelo Merisi da Caravaggio ammazza con una spada affilata per l’occasione il nobiluomo Ranuccio Tommasoni da Terni; è un duello, l’unico metodo universalmente riconosciuto per appianare le divergenze teoriche sul gioco della pallacorda.
1837. Pietroburgo: Aleksandr Sergeevič Puškin muore a causa della ferita riportata nel duello con il barone D’Anthès; il sublime scrittore russo viene ucciso perché sospetta che il giovane ufficiale della guardia abbia una relazione con sua moglie, la bellissima Natal’ja, e lui, che ha abbondantemente narrato le gesta dei cornuti, non ci sta.
1875. Via delle Coppelle, redazione de «La Capitale»: è l’ultimo giorno di Carnevale, si fanno scherzi agli ebrei del Ghetto e si ride con il “ballo dei poveretti” (deformi, sprovvisti di arti, nani, gobbi eccetera, si toccano per le strade romane); l’editore, scrittore e giornalista Raffaele Sonzogno (un tipo che aveva fatto un uso abbondante del giornalismo scandalistico) viene ucciso con 13 pugnalate da un falegname di nome Pio Frezza, pagato con 5.000 lire per il disturbo.
1898. Villa Cellere, dalle parti di Porta Maggiore: lo scrittore e deputato della sinistra radicale Felice Cavallotti (il primo ad utilizzare la metafora delle “mani pulite” per porre la questione morale al centro del dibattito nazionale/un uomo che sembra modellato sul personaggio lawrenciano di Lewie Goddard, a sua volta modellato su un militante socialista, William Hopkin), dicevamo, l’uomo di lettere e deputato dei primi “radicali” perde la vita in un duello con il conservatore Ferruccio Macola, più piccolo di venti anni. La causa: i due s’erano rabbiosamente apostrofati.

Citazione dal Belli: «In quanto all’arme poi, sò una pazzia / Pe rrimette ar crapiccio de la sorte / Tanto la verità cche la bbuscìa».

 

 

I. nel quartiere all’estremo est

Quando tu prendi la Prenestina da Porta Maggiore che c’è sempre il traffico e i sampietrini e gli studenti e i lavoratori e i lavavetri e i lavori in corso e i tram e gli autobus, sei in centro. Quello è il centro di Roma. Mentre la periferia è dove prima si andava a puttane sotto gli archi degli acquedotti con l’eco notturna dei grilli e le coltellate dei duelli che squarciavano la pelle e i corpi assassinati dei dissidenti dei carbonari dei ladri dei bambini nati morti. Ecco che sopra questi strati di morti sorge la gloriosa periferia, per dare un tetto agli operai, nei palazzi costruiti per sfottere il centro. Le pietre di cemento, rettangolari e alte, s’alzano come falli in faccia ai borghi della città. In culo agli artigiani di Trestevere, alle lavandaie di S.Paolo, ai fabbri e alle puttane, al popolo di Roma. Che, dice mi zia, è stato preso co’ i camion e, come a volerlo estirpare tipo na’ gramigna, trasportato giù lungo la Casilina, la Nomentana, la Tiburtina, la Colombo, la Flaminia, la Tuscolana.

II. il trenino Laziali-Pantano

La cosa che tutti notano a Roma è la terra. Intorno ai palazzi, alle circonvallazioni, ai perimetri delle fabbriche, ai magazzini abbandonati, alle stazioni e alle fermate c’è terra. Metri quadrati di campo non coltivato, per molte ragioni salvo dal cemento. Così è a Spinaceto, a Case Rosse, a Torre Angela, ai Giardinetti. Tutti pezzi di Roma cresciuti come un puzzle composto a tratti, co’ i pezzi dimenticati, persi, venduti. Tua zia dice che viaggia ancora il trenino Laziali-Pantano, che la gente chiamava l’ammazzacristiani e che fra un po’ lo smantellano per via della metropolitana. Un altro buco nel sottosuolo, dice zia, in questo formaggio sformato, muffito. E così sali su quella ferraglia che cancella il presente: guardare la strada di case diverse dal finestrino giallo ocra del trenino Laziali-Pantano dev’essere come cavalcare una giumenta nel centro di Roma, con l’unica differenza che per andare sul trenino Laziali-Pantano non sei costretto ad indossare il cappello come fanno invece i Carabinieri.

 

III. gli occhi sulla città

A Roma tutte le strade portano alla rassegnazione, ma qualcuna è peggio delle altre. Perché se prendi un tapis roulant e pensi a quanto dev’essere faticoso camminare senza farlo sul serio, ma solo imitando qualche pubblicità di scarpe da corsa, quella è Roma. Ciò è possibile se immagini un tuo amico al tempo delle elementari che va a una festa di una sua compagna. La madre della sua compagna ha preparato tre torte, le lasagne, due teglie di pizza margherita. Ma il tuo amico è confuso dalla quantità di carboidrati e colori e vapori, così addenta una patatina fritta che il padre della sua compagna ha comprato in un fast food molto famoso perché ci hanno buttato addosso le uova quindici anni fa e ancora puzza, e lui mangia ancora un’altra patatina, e poi ancora un’altra, ancora, e il sale gli rende la prima occasione di evasione cosciente, ma è confuso, però continua con le patatine, ancora. Quando ha lubrificato il recipiente di plastica che conteneva le patatine dorate è talmente pieno da non riuscire a guardare il cibo che la madre della sua compagna ha premurosamente cucinato. Ecco. Roma è una città che serve la bulimia in recipienti di plastica e ti fa vergognare se non mangi il resto, ma poi ti abitui alla sensazione, ci fai il callo e chiudi gli occhi sulla città.

IV. le nubi si muovono lente

Roma non è Roma. La città non è una città. Roma è il sogno che fai sudando. La città è un’orchestra da camera a cui hanno rubato le sedie. Roma, nel sogno, la vedi sempre dallo stesso punto. La città non conosce le parti che la compongono. Il punto: strisce pedonali scolorite davanti ad un parcheggio o ad una fermata dell’autobus, accanto alla stazione o di fianco ad una scuola. La città non è una preghiera, diresti più che è un’epopea che si tramanda di bocca in bocca. Tu stai camminando sulle strisce e una macchina ti mette sotto. La città è negli scantinati e nelle camere ad ore. L’autista si ferma, esce, corre verso le strisce che hanno finalmente un colore visibile. La città preme su i pezzi di terra incolta, striscia sulle sopraelevate, sbuca sotto i ponti, nelle traverse che qualcuno ha tagliato come facevi tu quando usavi le forbici per fare un origami. Tu sei stato schiacciato sulle strisce di una città che si chiama Roma e stai guardando le nuvole che si muovono lente.

 

V. dove finite in un bar e non vorreste essere in un altro posto

Solo un graffio sulla fronte e tre costole rotte. Grazie all’autista sei arrivato subito all’ospedale e quando sei uscito dal reparto l’hai trovato seduto su quelle panche grigie che mettono negli ospedali e hai vomitato. Mario, questo è il nome dell’autista, ti ha accompagnato a casa. Mentre ti apriva la portiera hai pensato, è più gentile di mia zia, che per te è un complimento molto raro, ed è più o meno come dire a qualcuno che conosce le qualità della cioccolata più di Napoleone, oppure, cucini meglio di mia zia, che è un complimento straordinario e inevitabile se la persona interessata non conosce tua zia, oppure. A Roma la cosa bella di Roma è che puoi passare davanti ad un bar e ascoltare Summertime suonata dal barman davanti a qualche amico in nome di un operaio morto. Così tu e Mario siete entrati nel bar, avete preso due birre dal frigo, le avete aperte e poi, brindando con un schiocco di vetro, avete bevuto.

VI. la guernica a colori

Con tuo padre non hai mai bevuto in quel modo. Perciò, durante la notte ti sei chiesto: chi è l’UOMO?; solo un vecchio con la dentiera, soltanto un bambino che se ne va gattoni sulla moquette e che risponde al nome che gli è stato assegnato? Chi è il PADRE: un tipo che gli assomiglia o un parente che non chiama mai per nome? E chi è la MADRE: un’anziana che gli ripiega le mutande o una signora che gli ha permesso di nuotare nella pancia?

Così Roma è una città con molti padri e molte madri, un posto che i figli chiamano casa ad intervalli regolari di due anni.

Tu non sei un tipo intraprendente: hai sempre pensato che se avessi messo piede sulla sabbia di Normandia durante lo sbarco del ’44 saresti stato crivellato appena in tempo per assaggiare l’acqua francese. Infatti vivi in una città che fortunatamente non si impegna per farci smettere di preoccupare per la nostra esistenza e di pensare che tutto ruoti intorno a noi; se Roma assomiglia a un quadro è la guernica a colori. 

 

VII. a Roma ci sono

Roma è una città fedele all’opinione che ha di sé, della sua grandezza. Una città umida, fatta di microcosmi uguali e diversi, dove i palazzi bombardati, tagliati a metà, sono reperti di un tempo già dimenticato. Il colosseo e le catacombe, invece, parlano una lingua che il romano crede di comprendere. Qui dove la memoria è sotterranea, scavata e distrutta dai binari della metro. Qui dove ogni fermata nasconde strati del passato, sgretolati, ossigenati dal rumore di fondo che sembra non finire mai. Fellini ci girò un documentario, ed era evidente quale fosse la superficie e quale il sottosuolo. La differenza, ora, è più sottile.

Il paese Roma s’agghinda ancora del mito, della grandezza, come un corpo steso in camera mortuaria ricorda ancora il suo aspetto nell’attimo della morte. Certo, ci sono ancora i papi, con le loro corti, eterni e vili quanto possono esserlo fame e sete.
Ci sono i turisti, spettatori del museo imperiale, affascinati dalla dissolvenza al tramonto, proprio come a Il Cairo o a Baghdad.
Ci sono i cittadini romani, figli dei figli dei figli degli schiavi, che si sentono gli ultimi esemplari di una specie in via d’estinzione.
Ci sono i nuovi schiavi, incatenati dal lavoro e dagli affitti, che ri-assomigliano sempre di più al prezzo che lo schiavo pagava al patrizio per liberarsi.
Ci sono i monarchici che travestiti da Bela Lugosi proteggono il riposo dei loro dèi.
Ci sono le camicie nere che ogni anno riesumano il rito assurdo della marcia.
Ci sono i privilegiati che siedono sugli scranni dei colli e rivendicano l’eredità politica di quel conte di Cavour, notaio dell’italietta, fautore della questione meridionale.

VIII. come un tic irreversibile

Forse ce l’hai con questa città perché quand’eri piccolo sembrava vasta e ora è più breve del tuo fazzoletto. Forse è per questo che disprezzi tuo padre, la casa in cui vivi, lo stesso quartiere che ti ha visto nascere e giocare a biglie sull’asfalto e bere birra gelata seduto su una panchina mentre la vita intorno si riproduceva.

Ormai non senti più il dolore al costato, tua madre ha seguito premurosamente le istruzioni del medico, ma c’è qualcosa che preme tra le ossa, che ancora si fa sentire quando ti svegli e metti il piede sinistro accanto a quello destro o quando ti siedi per mangiare, con tuo padre di fianco e tua madre di fronte, o quando vedi un amico che ti dice di come vanno le cose al lavoro e tu ti chiedi, e io?

Mario ha i capelli grigi e gli occhi pure, ha la pancia che gli uomini alla sua età indossano come un vestito comodo e impercettibile, ma soprattutto ha il fiato caldo e dolce quando parla, e lo sguardo aperto quando lo fai tu. Così puoi dire di avere un amico: uno che capisce subito cosa intendi quando parli del vuoto, uno che ha fatto il callo alla solitudine e non si lamenta quando, improvvisamente, le vecchie ferite si gonfiano e pulsano sotto la pelle.

In questa città che ogni giorno disegna nuovi ghigni su i volti dei passanti, tu ti senti quasi come un uomo. Certo, la cosa non va giù a tuo padre, che qualche dubbio già ce l’aveva: non gli piace sapere che il figlio esca con un uomo della sua età; non accetta il fatto che il figlio preferisca la voce di un uomo a quella di una donna; in fondo, non capisce perché il figlio viva il suo tempo come un miserabile, con l’espressione del fallimento negli occhi, come un tic irreversibile.

IX. Si succederit, de genu pugnat.

Prima di Mario non apprezzavi la memoria, non ti piacevano i vecchi pronti a ricordarti il destino delle cose. Non ti piacevano e non ascoltavi. Hai sempre saputo che sotto ogni pietra c’è qualcos’altro, ma non ti sfiorava mai la curiosità di saperne di più. Ti bastava pensarlo e chiuderlo in una regione remota, dove ti riusciva facile ignorarlo quanto i gesti di cui non ricordi la traiettoria.

Se è caduto, combatte in ginocchio. Mario te l’ha detto la seconda volta che vi siete visti. Ha abbassato gli occhi sul tuo sterno, lo ha sfiorato con un dito e ha detto: si succederit, de genu pugnat, Seneca, De Providentia.

Ecco che tutti i morti di Roma ti sono apparsi così come erano: uomini, donne e bambini, malati, vecchi e neonati; li hai visti come te, con quella cosa addosso che alcuni chiamano destino, altri sorte, altri ancora sfortuna; tu non le dai un nome, non credi ne abbia uno; cambia col passare del tempo, ma ti avvicina ai giorni che sembravano lontani come le pietre che guardavi da piccolo quando ti portavano ai Fori Imperiali.
Più o meno per te significa una nuova vita, il cambio della guardia per quel tic irreversibile, o forse solo un modo come un altro per accettare la mortalità, anzi di più, per viverla.

Hai deciso di concedere la pensione a tuo padre, ereditando la licenza del suo tassì. Ma prima di attraversare per anni la città che hai disprezzato, ti sei concesso un incontro con Mario, una sorta di buona uscita. Sai che lo vedrai ancora, ma sarà diverso. Ora hai le idee più chiare e ti sembra quasi di avere aperto gli occhi.
L’appuntamento è sulla Casilina, vicino al bar dove Mario ti ha messo sotto:
piove e la strada è lucida; cammini sul marciapiedi stretto, le mani in tasca; tieni gli occhi fermi sul flusso di macchine continuo; domani ci sarai anche tu; guardi il bagliore prodotto dalla luce dei lampioni sulle buche piene d’acqua; Mario è appena arrivato, ti saluta, scuote la mano, aspetta che attraversi per abbracciarti; le strisce pedonali sono state riverniciate e quasi non riconosci il punto in cui è successo; perciò ti sforzi di vedere, perché lì sei cambiato, perché ora è importante ricordare; il rumore a quest’ora è costante, non smette mai di esserci; tu attraversi la strada con gli occhi fermi, le mani in tasca; poi senti la voce calda di Mario.

Ma è tardi.

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