Storia di M.

gennaio 13, 2011 § Lascia un commento

La luce era lieve nella stanza di M. Aveva dimenticato di chiudere completamente le persiane, la notte prima, e ora il colore del giorno invadeva delicatamente la parete bianca di fronte alla finestra, illuminava in modo discreto la porta del bagno annesso, e dipingeva le strisce oblique da cui entrava.

M. non ricordava i sogni da anni. Qualche incubo ogni tanto, l’immagine sfocata di un viso, la confusione tra il ricordo e l’illusione del ricordo. La sua incapacità a concentrarsi lo tagliava fuori dal popolo dei sognatori. Al mattino M. si svegliava con la netta sensazione di sapere sempre meno di se stesso, notte dopo notte, luna dopo luna. Andava in ufficio e il piccolo nodo allo stomaco iniziava a bruciare: intorno a lui persone che avevano sognato, che ricordavano ciò che avevano sognato e che ne parlavano. All’ora di pranzo i colleghi si dividevano in gruppetti e riempivano i bar e le tavole calde vicine all’edificio in cui lavoravano. M. restava in ufficio. Sapeva che alla fine, in ogni singolo gruppetto, qualcuno avrebbe raccontato un sogno, e a ruota libera tutti si sarebbero liberati del ricordo. M. questo non poteva sopportarlo.

All’ora di chiusura M. tardava sempre un po’, in modo da poter uscire da solo dall’ufficio, entrare da solo nell’ascensore e guardarsi allo specchio. Non lo faceva per paura che qualcuno gli raccontasse un sogno. A quell’ora ormai era improbabile. La gente si preparava a quelli nuovi, ai sogni futuri. M. usciva da solo dall’ufficio perché a quel punto della giornata aveva attraversato ormai diverse fasi depressive, e quell’ora, invece, alleviava il nodo infuocato nello stomaco. Per uno strano caso M. amava le ore che precedono la notte. Una piccola tregua, così la definiva nei suoi pensieri. Ma era proprio quella tregua a permettergli di respirare ancora. In quei momenti poteva immaginare i sogni, poteva sognare ad occhi aperti e fingere che fossero veramente sogni, quelli che aveva immaginato. Poi, però, arrivava la notte.

La sera prima M. aveva digitato le cifre sul cellulare, cifre che avrebbero dovuto svegliarlo all’ora prestabilita. La sveglia suonò Prokofiev, ma M. non la sentì. La sveglia, programmata per ignorare la sua volontà, riprese la sinfonia di Prokofiev dopo cinque minuti. Di nuovo, M. non la sentì.

Alle 08:05 M. aprì gli occhi e vide le strisce oblique disegnate sulla parete di fronte e sulla porta del bagno annesso alla stanza. Grugnì, si grattò sulla spalla e fece un versetto con la gola, mentre scendeva dal letto e saliva sulla terra. Infilò i piedi nudi nelle ciabatte di plastica. La luce aumentava, ma non abbastanza da illuminare lo spazio e gli oggetti. Perciò, tastando la sedia nel tentativo di sfiorare il pantalone, fece cadere la bottiglia di vino che aveva bevuto la notte prima. S’era dimenticato di infilarci il tappo, prima di dormire. Così una breve eruzione di fluido rosso aveva tinto il pavimento, mentre M. correva in bagno e tornava con un panno umido. Asciugò la chiazza di vino, tornò in bagno, lavò il panno e urinò in piedi, facendo schizzare il primo getto sul volume verde di un romanzo di Balzac. Pensò che era ora di chiudere con il passato.

M. ha appena ingollato un quarto di litro di caffè. Siede accovacciato sul letto e guarda la trapunta blu. Le punte delle piume d’oca spuntano un po’ dappertutto e M. pensa che forse è ora di comprare un copri-piumino. Poi si alza, apre il cassetto in basso, alla sua destra, e prende due calzini. Li indossa e nota che su quello finito a sinistra c’è un buco, che più che un buco è un velo di stoffa: il materiale si è usurato e appare trasparente. M. vede la pelle del suo tallone e pensa a quando morirà. Gli ha sempre fatto un effetto del genere, vedere la sua pelle. Ha anche pensato di farla finita, per questo motivo. Ma poi ha deciso che certe cose vanno fatte con calma. C’è tutta una vita per ammazzarsi. Perché farlo in fretta?

Di nuovo seduto sul letto, M. è costretto a sezionare i minuti appena trascorsi. Se non lo facesse si sentirebbe perduto. Per prima cosa si chiede come sia possibile che si sia dimenticato di infilare il tappo di plastica nella bottiglia mezzo vuota. Probabilmente era brillo, decide M., probabilmente si è addormentato senza accorgersene. Possibile.

Poi c’è la questione della sveglia. Lui crede di averla sentita e di non aver digitato il pulsante che spegne il meccanismo e accende il cellulare. Ma è una cosa che non gli è mai capitata. Perciò, in base anche alla vicenda della bottiglia dimenticata aperta, M. crede di aver digitato le cifre sbagliate, la notte prima. Possibile. Perciò M. arriva alla conclusione del suo ragionamento: non ha mai sentito la prima sveglia; l’ha sognata.

M. sviene e il letto attutisce la caduta del corpo vuoto. Alcune piume d’oca fluttuano per una decina di secondi. La luce penetra dalle persiane e si fa strada sulla parete di fronte al letto e sulla porta del bagno. Un pensiero solletica la fronte di M., fluttua, si appoggia sulla cartilagine esterna dell’orecchio, fluttua ancora per un paio di centimetri, si riposa nell’apertura del timpano e penetra in M.

Il cuore è stupido, singolarmente stupido.
Lo puoi tagliuzzare in centinaia di pezzettini che sanguinano e lui continua a pompare sangue anche se ormai non ha più senso, e lui, il cuore, è diventato grigio, e il sangue lo circonda e i pezzettini affogano.
Come quasi tutti i cuori, non gli piace che gli si dica cosa fare.
Perciò, se è a pezzi, cioè se i suoi pezzettini galleggiano sui globuli e sulle piastrine, lui continua a pompare. Tu gli dici, che cazzo fai? Non puoi continuare così. Ti verrà un attacco di. Un colpo. Una cosa.

Ma lui è orgoglioso, non può tollerare che qualcuno gli dica cosa fare.
Così a un certo punto esplode.
I pezzettini tagliuzzati si uniscono ai pezzettini di cuore ancora integro e il sangue sbrodola e tu sbraiti, ti infervori, e lui è spompato, il sangue cola dappertutto e tua madre bussa alla porta della tua camera e ti chiede, va tutto bene? Non fare così. Dai. Per me non è un problema. Sai quanti ne ho visti. No. Non volevo dire. Ho visto solo uno di quei vostri cosi. Per tanti anni. Ecco. Questo volevo dire. Quello di tuo padre. Ora però è un po’ che non lo vedo. Un tempo sì che lo facevamo. Ma ora. Perciò voglio che tu la viva come una cosa naturale. Da piccolo chi è che ti faceva il bagnetto? Io. Chi è che ti tirava la pelle del prepuzio per pulire bene il glande? Io. Chi è che lo asciugava quando ti facevi la pipì addosso? Io. Perciò, amore della mamma, cuore mio, non devi sentirti in imbarazzo. Sì, va bene. T’ho visto che ti toccavi. Ma io sono tua madre. Non sono una donna qualsiasi.

Ecco. Il cuore, i pezzettini che lo compongono e che ora strisciano come vermetti sulle piastrelle del pavimento, lui, quell’organo singolarmente stupido, ha un sussulto d’orgoglio. Il suono è simile al pluf delle pietre lanciate nel lago, pluf, e poi segue una lieve effervescenza simile alla reazione di quelle polverine magiche che si trovavano in quelle bustine colorate, simile a quando le polverine vengono a contatto con la saliva, ma non so se l’effervescenza è una cosa possibile, ma io so che l’ho vissuta.

A quel punto mi ricoverano d’urgenza. Mia madre. Tutto è nebbia, voci lontanissime. Mia madre piagnucola, sento ben distinto il suono delle sue dita che asciugano le lacrime.

M. rinviene e la luce ormai illumina quasi tutta la stanza. Le gambe sono intorpidite e il braccio sinistro è addormentato. M. fa leva sulla forza interiore e immagina di muoverlo e sente chiara la sensazione di impotenza e un formicolio che sale dalle punte delle dita e raggiunge il gomito. M. muove il braccio. Che è successo M.?
M. non lo sa. Ma ricorda quell’episodio con sua madre sulla porta del bagno e quel discorso sui peni. Poi ricorda l’ospedale, le due infermiere che lo accarezzavano, suo padre che chiedeva al dottore se fosse possibile che un bambino di undici anni avesse un infarto, il dottore che rispondeva sì, succede continuamente.
E’ anche possibile che in quel momento un bambino di undici anni abbia un’erezione che solleva il lenzuolo e scatena prima il riso delle infermiere e poi una curiosità che zittisce il riso e solletica qualcos’altro.

M. cerca di alzarsi dal letto, ma ha bisogno di qualche minuto, prima di riuscirci. Cerca il cellulare tra le pieghe del piumone e lo trova spento. Lo riaccende e scopre che è ora di pranzo, che i suoi colleghi in quel momento sono impegnati a spazzolare i vassoi pieni di tramezzini e panini assortiti nei bar e nelle tavole calde che circondano l’ufficio. M. è sollevato. Preoccupato, sì, per quello che è successo. Ma anche sollevato. Per la prima volta in tanti anni non è andato al lavoro. Perciò non sarà costretto a vivere la stessa giornata di sempre. Forse non è un male questa nuova cosa che gli è accaduta.

M. immagina di poter stare fermo sul suo letto per una vita intera. Piume d’oca e polvere circonderebbero il letto, e lui, indifferente, continuerebbe a pensare. Ecco. Vivere tutta la vita che gli resta pensando ai sogni e poi sognarli e ricordarne gli strati e poi pensarci finché non è ora di dormire. Anzi, eluderebbe quelle regole che concedono agli uomini solo alcune ore di sonno. Dormirebbe continuamente. Farebbe del sonno la sua vita. Sì, potrebbe andare.
Oppure potrebbe alzarsi dal letto, vestirsi, chiudere la porta di casa, uscire sentendo il suono del portone che sbatte, camminare per un giorno, rinnegare i bisogni che punzecchiano il corpo: niente cibo e acqua, niente pipì e cacca, niente di niente, solo passi che seguono altri passi.
Oppure potrebbe prendersela comoda, telefonare in ufficio e dire che è malato. Molto malato. Affetto da una sindrome appena diagnosticata. Dovrà stare a letto per molto tempo. Poi potrebbe chiamare sua madre e dirle che non tornerà per le feste di Natale. Ha deciso di andare ai Tropici con una sua amica. Così direbbe alla madre. E la madre poi piangerebbe sulla spalla del padre. Finalmente, direbbero i genitori, finalmente.
Oppure potrebbe vestirsi e correre in ufficio e dire che ha avuto un incidente, ma niente di grave, sia chiaro, lui sta bene, ma non si può dire altrettanto degli altri passeggeri del tram che è uscito fuori dai binari e ha preso in pieno un’ambulanza. Per fortuna non c’era nessuno a bordo, tranne i paramedici. Loro stanno bene. Hanno già ricominciato a girare per la città. Infatti mi hanno accompagnato loro. Penso, però, che l’autista del tram non ce l’abbia fatta. Eravamo insieme, nell’ambulanza, e lui sanguinava molto, e penso proprio che non ce l’abbia fatta.

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