LISTA PARZIALISSIMA SUI NOMI MASCHILI DA DARE A UNA CREATURA DI CUI SARò ZIO – I cap. (A-D)

gennaio 20, 2011 § Lascia un commento

LISTA PARZIALISSIMA SUI NOMI MASCHILI DA DARE A UNA CREATURA DI CUI SARò ZIO

A Genny e Chris


ANDREA:

Il primo che ho conosciuto aveva la mia età, era piccolo come me, era scuro come me, mangiava il gelato proprio come me, partendo dal bordo, e alla fine si leccava le dita proprio come facevo io, ma era comunque insopportabile. Ricordo che una volta i miei mi portarono al lago, era maggio, l’aria tiepida e il lago profumato. Mentra salivo e scendevo nell’aria piena di polline, mentre starnutivo e ingoiavo saliva salendo e scendendo con gli occhi felici, mio padre fece un cenno a mia madre, che fece un cenno a mio padre, e insieme fecero i pochi metri che li separavano da un’altra coppia che faceva cenni, i genitori di Andrea. Io ero ancora sull’altalena quando i miei si avvicinarono all’altalena.

– Questo è Andrea. Marco. Andrea.

Fu subito chiaro che Andrea soffriva di iperattività da appartamento, che il lago non gli piaceva perché fece più volte pipì nell’acqua torbida e verde, che io gli ricordavo qualche bambola dagli occhi neri e dai capelli ricci, che i miei capelli, questo fu chiarissimo, non potevano sopportare le spremute a cui furono sottoposti, che le mie guance non potevano tollerare a lungo le manate con cui erano costantemente sprimacciate. Spero che Andrea abbia fatto una brutta fine, che se lo sia preso il circo
o i lottatori di sumo o che abbia fatto carriera nella televisione.

Il secondo Andrea che ho conosciuto era appena un feto. Ricordo benissimo mio padre e mia madre all’ora di pranzo, in una cucina piccola e stretta come solo certe cucine sanno esserlo, felici di essere felici in una cucina brutta e grigia, con me che mangiavo la pastina al formaggino e loro che discutevano di nomi. Ricordo anche che mio padre mi chiese più volte che nome volessi dare al mio fratellino, nel caso in cui fosse nato un maschietto. Dissi Fabio.

BERNARD:

La cosa più bella dei tipi come Bernard è che non parlano mai abbastanza da seccarti. Se chiedevi a Bernard un parere su un argomento di interesse universale, Bernard faceva spallucce. Se durante una discussione qualcuno alzava la voce e qualcun altro rispondeva tono su tono e qualcun altro ancora si infervorava fino a diventare rosso e se qualcun altro ancora ancora alzava la voce per placare gli animi e gli animi a loro volta alzavano la voce per sentire le loro lingue pronunciare orribili anatemi, Bernard taceva. In effetti non l’ho mai sentito parlare. Però mi piaceva.

BRUNO:

Non posso non associare il nome Bruno ai francobolli inglesi di fine ottocento e alla salsa alla tartara. Una volta, infatti, ho avuto uno zio che collezionava francobolli e monetine, grande esperto di numismatica e filatelia.

Lavorava come cuoco in un ristorante italiano sulla Hauptstrasse. La prima volta che ricordo di averlo visto avevo poco meno di otto anni. Era il giorno in cui mio padre e mia madre mi portarono a casa sua.
Ci accolse con una camicia bianca e un sorriso verde, e ci presentò alla sua compagna, una donna più grande di lui, più ricca di lui, e fondamentalmente più brutta. L’appartamento dava sul fiume, la luce era piacevole e il frigorifero era mezzo vuoto. Lo so perché gli diedi subito un’occhiata. Andavo matto per i frigoriferi. Mia madre mi odiava per quest’ossessione, ma non potevo farci nulla.
Quindi mio padre prese una mazzo di chiavi dalle mani grandi di mio zio.
Mia madre finse di non sentire il fumo che saliva dalle cicche appena spente in soggiorno.
Mio padre mi prese per mano e mi spiegò che per qualche settimana avremmo vissuto in quella casa.
La compagna di mio zio ci offrì del tè freddo lipton ice tea.
Mia madre chiese dove fosse il bagno e io la immaginai subito piegata sui sanitari, con uno straccio in una mano e l’alcool puro nell’altra.
Mio zio Bruno disse, è ora.
La compagna di mio zio salutò mio padre con una stretta di mano e diede un bacio a mia madre, che intanto era inaspettatamente tornata dal bagno.
Quindi zio Bruno e zia Monica uscirono.

Per me questo è uno dei ricordi migliori.

CARLO:

Ricordo il disco giallo butterato, sembrava appeso apposta per noi. Eravamo in sei o sette, e nessuno quella sera aveva voglia di parlare. Avevamo parcheggiato le macchine vicino alla stazione di servizio e prima di prendere il sentiero qualcuno aveva stappato una bottiglia. La vegetazione era fitta, la sabbia assorbiva le scarpe, infastidiva i tendini, l’odore di pino selvatico era fortissimo. Sbucati dal sentiero, con le bocche spalancate per la luna gigantesca, sentimmo dei passi dietro di noi. Tutti si fermarono. Intanto io cercavo di bere il più possibile. Una delle ragazze chiese chi fosse. L’uomo non disse nulla. Il ragazzo della ragazza che aveva parlato si sentì in obbligo di far rispettare la dignità di una donna curiosa. Fece la stessa domanda a muso duro. L’uomo concesse una sbirciata ai suoi occhi e gli diede le spalle. Quindi si avvicinò a me. E’ finita, pensai, ora mi chiederà di bere. L’uomo, un tipo alto, sopra la media del gruppo, con le spalle strette e la testa ovoidale, mi fece un cenno col capo. Io strinsi la bottiglia. Dietro di noi, mentre l’uomo avanzava verso di me stringendo i pugni, potevo sentire il respiro dei ragazzi farsi nebbia, la saliva addensarsi, gli occhi indurirsi. Strinsi con tutta la forza che avevo il collo della bottiglia e pensai, ora è finita sul serio. L’uomo era a poco più di due metri da me, le mani in tasca e una strana voglia sulla fronte. Ora potevo vederlo meglio, la luce della luna cadeva dritta su di noi. Poi, come accade sempre quando hai al fianco gente permalosa, il ragazzo della ragazza che non aveva avuto risposta alla sua domanda si sentì in obbligo di riformularla. Lei chi è?

Carlo, disse l’uomo, e sono il proprietario di questa spiaggia.

CARLO 2:

Non mi ricordo  il giorno in cui l’ho conosciuto, ma mi ricordo il giorno in cui ho capito chi avevo di fronte. Succede che per mesi vedi una persona e non riesci a farti un’idea chiara di chi sia, di cosa pensi. Poi all’improvviso il quadro si articola, le parti si fondono, la voce che ascolti diventa un flusso e le cose che dice combaciano perfettamente con la rete che gli hai cucito addosso. A volte, però, ci si sbaglia di grosso. Carlo ha la pelle chiara, la fronte spaziosa, gli occhi azzurri, il naso dritto e grande abbastanza da non sembrare piccolo. Ha grandi orecchie e un velo di peli biondi che sbuca dal timpano. Il collo è occupato quasi tutto dalla carotide, che sale e scende, non puoi fare a meno di guardarla. Le labbra sono rosse, e lui indossa quasi sempre abiti grigi. Mi piace la gente che veste in grigio.

Quando l’ho conosciuto, Carlo faceva il guardiano di un convento, una struttura costruita negli anni ’50 e piazzata a due passi da Piazza Bologna. Non mi ha mai sorriso, nei dieci mesi in cui ci siamo visti tutti i giorni. Non mi ha mai detto niente di niente. Non abbiamo parlato del tempo e non ci siamo arrischiati in pronostici calcistici. Non ho mai sentito la parola politica, sulla sua lingua. Le uniche cose che gli ho sentito dire erano versi, poesie. Carlo lavorava per dodici ore in una guardiola minuscola, grande quanto uno sgabuzzino. Non aveva una televisione e non leggeva giornali. Gli unici oggetti che popolavano la sua scrivania erano libri, poeti. C’erano Ezra Pound e Novalis, Leopardi e Rimbaud, Mallarmé e Keats, Verlaine e Yeats, Heavey e la Bachmann, Petrarca e Pasolini.

Qualche mese fa sono passato dal convento e ho dato un’occhiata dentro. La madre superiora mi ha riconosciuto subito. Le ho chiesto di Carlo. Lei mi ha detto che un giorno è sparito, all’improvviso.

DAVIDE:

Qualche settimana fa un tipo tozzo dalla carnagione scura, di origine peruviana, si è seduto al tavolino occupato da me e Davide. Non si sa per quale coincidenza abbia deciso di raccontare proprio quella storia, tra tutte le storie conosciute. Ha raccontato la versione etilica di Davide e Golia. Noi siamo rimasti con le bocche asciutte e abbiamo ascoltato fino all’ultima parola. Poi il tipo si è alzato barcollando e ha proseguito zigzagando sulla strada invasa dal sabato sera. Ma non parlerò del Davide con cui ero seduto. No. Parlerò del Davide pittore che amava i corpi femminili ma non poteva toccarli per via di una religione che noi chiamiamo mormona. Non potendo toccarli, li dipingeva. Questo nessuno poteva impedirlo. In realtà la confessione di Davide si chiama la Chiesa dei Santi degli ultimi giorni, che fa un po’ effetto ma alla fine ci si abitua. Non è che i fedeli della Chiesa dei Santi degli ultimi giorni non possano fare all’amore, no, ma piuttosto si può dire che credono ciecamente nel celibato prima del matrimonio. Davide ha abbracciato questa fede quando aveva più di trent’anni, perciò posso dire con assoluta fermezza che di corpi ne ha toccati.

Andava matto per Dalì, sapeva tutto su Dalì, conosceva ogni particolare della sua vita, e dipingeva come un’estensione di Dalì, come un innesto riuscito tra una rosa rossa e un girasole. Davide impazziva per i girasoli e per le lattine di coca cola. Poi gli è venuto un tumore, un tumore tremendo, durato anni. Si è operato quattro volte.

E alla fine è morto. Ma prima di andarsene ha vissuto lottando. Lo andavo a trovare ogni volta che potevo, nello studio che aveva ricavato da una rimessa. C’era il camino sempre acceso e musica hard rock nello stereo. Non faceva in tempo a finire una tela che gliene commissionavano subito un’altra. Una volta iniziata la chemio, Davide non ha smesso di dipingere. Aveva progettato un meccanismo che gli permetteva di dipingere dal letto, in posizione orizzontale. I farmaci erano potenti, il tumore lo distruggeva giorno dopo giorno, ma Davide continuava a dipingere, cercando di rappresentare la cosa che stava soffocando il suo corpo. Non ha fatto altro fino alla fine.

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