Giocatori

aprile 19, 2011 § Lascia un commento

In agosto il paese era vuoto, deserto come certe tele del Turner, col cielo un po’ confuso che cade sulla terra e la velocità del calore che provi a calcolare mentre attraversi la strada.
Il paese in quei giorni assomiglia di più all’idea che ti facevi da piccolo, su come non dovrebbe essere il posto in cui vivi.

Tu, il basso e quell’altro giocate a calcio in una piazza dove c’è un distributore di benzina abbandonato da tre anni e un monumento ai caduti della Grande Guerra, con gli elmetti i cavalli la lista dei morti e le bandiere tricolore sfilacciate, indifferenti allo scirocco che spira caldo, umido.
Il basso sta in porta, indossa le ginocchiere di sua sorella Anna, che ogni tanto andate a vedere quando gioca a pallavolo alla palestra della scuola media Ugo Foscolo, dove nell’atrio c’è un busto del poeta che ha i capelli lunghi e una bella faccia con le basette lunghe.

Tu e quell’altro vi passate la palla logora e grigia, poi uno tira e l’altro aspetta il rimpallo su un palo, la sberciata di una macchina, il tonfo vuoto delle mani del basso quando sgambetta in aria e maledice quelle mani troppo piccole per parare. Ogni tanto chiedete Tempo, a turno andate alla fontana grigia e sbeccata, di fianco al monumento dei caduti della Grande Guerra. La fontana è concava, a forma di coppa, perde acqua dalla base e intorno, tra il cemento e l’asfalto, crescono gramigne e erba infestante.

Dalla piazza potete raggiungere facilmente il Corso, la via principale, oppure la parallela, che sta dall’altra parte, in direzione del monumento ai caduti. Intorno ci sono edifici di due, tre piani, con le terrazze sempre impiastricciate da stucco a buon mercato e le antenne paraboliche posizionate agli angoli. Gli ingressi delle case sono protetti dalla calura sfinente con tende gialle o persiane marroni, srotolate e impermeabili alla luce.

Tu ti asciughi il sudore dalla fronte con il dorso della mano e poi senti con le dita il liquido che è rimasto intrappolato tra i peli delle sopracciglia. Quell’altro ti dice di passarla, che è ora che la smetti di tenertela tra i piedi, e tu lo assecondi, tirando un missile scavafossi che striscia basso e un po’ riluttante verso la porta.
Il basso ha le mani aperte e strizza gli occhi per concentrarsi meglio. La palla però segue la corrente densa del caldo e va a sbattere sullo spigolo del marciapiedi e poi saltella attraverso la strada e si ferma all’angolo tra la Piazza e il Corso.

In quel punto, su una struttura di metallo arrugginito, di quelle che montano un mese prima che inizi la campagna elettorale e che poi dimenticano per mesi sui viali e accanto alle scuole, proprio in quel punto ci sta la Gazzetta dei Morti. Tutti quelli che muoiono vengono affissi su quella bacheca nefasta: da anni quel punto è simbolo di funerali, sepolcri e trigesimi, e nessuno ha mai pensato di farne un uso diverso.
Raccogli la palla sporca di olio per macchine e guardi la Gazzetta dei Morti. I nomi e le età di questi morti estivi ti rassicurano, perché ti danno la certezza che il paese ancora c’è, anche se lentamente muore.

Poi arriva una macchina rossa, con musica caraibica ad altissimo volume: l’uomo che scende è alto, ha i capelli lunghi e biondi raccolti in una coda, il viso scavato, gli zigomi alti e il naso tagliato male, storto e lungo; si avvicina a quell’altro, gli tira uno schiaffo e torna alla macchina; poi abbassa il volume dello stereo e va a suonare al citofono di casa sua.
La donna che s’affaccia al balcone è la madre di quell’altro, Patrizia, ha più di quarant’anni, fa la commessa in un negozio di pellicce ed è separata dal padre di quell’altro, che dovrebbe essere un imprenditore leccese ed è molto violento.

Il basso ti guarda e probabilmente pensa a suo padre che è scappato di casa due anni fa e ha lasciato la moglie con un’officina in fallimento, una casa ipotecata e quattro figli, di cui due, le gemelline, affette da nanismo.
Invece a te viene in mente di sciacquarti la testa, bagnare i capelli e aspettare che si asciughino per rifarlo: ricordi che d’inverno tua madre ti faceva vestire con un kway o un’incerata, sapendo che avresti sudato giocando a calcio; diceva che era meglio coprire tutta la pelle sudata piuttosto che lasciarla nuda e indifesa al vento freddo che ti avrebbe polmonizzato; e d’estate t’aveva insegnato che il sole può essere più crudele del vento, del freddo e delle cadute. E tu queste leggi immutabili le seguivi senza dubbi, sicuro che tua madre avesse ragione su tutto.

Il basso ti raggiunge alla fontana e insieme guardate quell’altro che se ne sta immobile davanti al portone di casa, facendo da palo alla macchina del padre. Ma non riuscite a vederlo in faccia, perché si tiene le mani sugli occhi.

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